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Cala anche l’occupazione etnica e gli immigrati se ne vanno.
L’Istat , nel suo “Rapporto annuale 2013” sulla situazione del Paese, delinea uno scenario decisamente preoccupante: siamo in piena recessione e la contrazione dei consumi si ripercuote pesantemente sull’occupazione, in particolare nell’edilizia, nell’industria ma persino nella ristorazione.
Vittime sacrificali della crisi sono ovviamente le fasce deboli della mano d’opera: giovani, donne e naturalmente immigrati.
Il tasso di disoccupazione per gli stranieri è arrivato nel 2012 al 14,1 %, mentre quello di occupazione scende di 6,5 punti. Il lavoro cresce solo nell’area dei servizi alla persona. Attualmente i disoccupati regolari ufficiali sono oltre quota 318 mila ai quali si devono aggiungere gli “irregolari” che per diversi motivi non hanno potuto “beneficiare ?”dell’ultimo provvedimento di emersione e i titolari di partita IVA, false o vere che siano, per non parlare di tutti quelli, con permesso di soggiorno, rientrati da Aprile – Maggio, non registrati come disoccupati, ma ancora alla ricerca di un‘occupazione.
Come se non bastasse, qualche tempo fa, era stata rilevata una discrasia tra i dati del censimento e quelli risultanti dagli stranieri residenti: una differenza di 800 mila persone. Di fatto la normativa vigente rende impossibile anche l’accertamento del numero di presenze degli immigrati.
Comunque sia, sempre l’Istat avverte: forse ottocentomila stranieri se ne sono già andati; come emerga questo dato è un mistero. Possiamo dire che, in materia di flussi migratori, sembra cambiata un’epoca e che probabilmente dovremo rivedere le stime demografiche nel prossimo futuro?
Per quanto riguarda la prima domanda , quello che è certo è che, anche se è difficile dire quanti stranieri abbiano deciso di andarsene (a casa propria o in un altro Paese) e quanti tengono duro scommettendo su un’improbabile immediata ripresa economica, la situazione degli immigrati è diventata insostenibile. Secondo i dati del Ministero del Lavoro, tra il 2011 ed il 2012 è aumentato in misura significativa il numero di disoccupati cittadini di Paesi Terzi, passati da 264mila (terzo trimestre 2011) a 318mila (terzo trimestre 2012) proprio mentre la crisi nei paesi d’origine – in particolare nell’area mediterranea- si fa ancora più grave a causa di contesti politici sempre più preoccupanti.
Nelle professioni non qualificate un occupato su tre è straniero e lo scenario relativo all’occupazione etnica, che conta di 2 milioni 334 mila lavoratori, non è certo tranquillizzante: nel 2012 è aumentata (+83 mila rispetto al 2011) ma, a differenza del recente passato, l’incremento è avvenuto a ritmi dimezzati ed è ascrivibile in oltre otto casi su dieci al comparto dei servizi alle famiglie (+73 mila unità, quasi esclusivamente donne). Le presenze più consistenti di stranieri si trovano nelle costruzioni (18,9%) e nei servizi domestici e di cura (76,8% nel 2012, era 67,3% nel 2008). Il tasso di occupazione però scende dal 2008 di 6,5 punti percentuali contro 1,8 punti degli italiani (dal 67,1% al 60,6% e dal 58,1% al 56,4%, rispettivamente). In particolare, gli uomini perdono 10,3 punti percentuali contro i 3,5 punti degli italiani in definitiva i lavoratori immigrati in cerca di occupazione sono aumentati del 23,4%. Eppure, tra il 2008 e il 2012 il loro tasso di disoccupazione è cresciuto di quasi 2 punti in più (dall’8,5% al 14,1%) rispetto a quello degli italiani (dal 6,6% al 10,3%).
Nel 2012 le differenze più elevate si sono registrate a Nord (14,4% contro 6,4% degli italiani), ma in tutto il Paese le comunità sono state colpite dalla crisi in diversa misura: la perdita occupazionale risulta maggiore per marocchini e albanesi, più inseriti nel settore industriale, mentre risulta minore per filippini, romeni e polacchi maggiormente impegnati nei servizi alle famiglie e di assistenza . Tra gli immigrati dunque sono più colpiti gli uomini che le donne.
Dal punto di vista economico siamo di fronte ad una prospettiva a dir poco apparentemente grigia anche per loro, che tradizionalmente risultano più “flessibili” e disponibili ad occupazioni poco allettanti ed a retribuzioni meno generose di quelle offerte agli italiani, ma in realtà decisamente cupa se consideriamo la precarietà alloggiativa e la mancanza di qualunque supporto familiare. Anche per i più fortunati che godono degli ammortizzatori sociali.
Se poi si considera che la perdita del lavoro, a meno che non se ne trovi un altro entro un anno, può comportare il mancato rinnovo del permesso di soggiorno e il conseguente declassamento ad una condizione di clandestinità e quindi il rischio di espulsione, il quadro diventa decisamente drammatico. Per non parlare poi dell’azzeramento di fatto del potere contrattuale in fase di assunzione.
Non è un caso dunque se, secondo l’ISMU (Iniziative e Studi sulla Multietnicità) nel 2011 sono arrivati appena 27mila stranieri mentre hanno fatto le valigie per l’estero 50mila italiani; uno scenario impensabile anche solo in tempi recentissimi. Dal 2002 al 2009 hanno varcato la frontiera italiana dai 350mila ai 500mila migranti l’anno.
Già nel 2010, il saldo tra stranieri che entravano e quelli che uscivano dall’Italia era sceso bruscamente a 69mila unità, ma è nel 2011 che si registra per la prima volta una crescita zero dell’immigrazione (+0,5%): al primo gennaio 2012 gli stranieri in Italia erano 5 milioni 430mila contro i 5 milioni e 403mila rispetto a un anno prima. Sempre secondo l’Ismu questo non significa che poco a poco gli stranieri smetteranno di venire e abbandoneranno gradualmente l’Italia , ma certo è finita l’era della loro crescita demografica tumultuosa che, tra il 2000 e il 2012 ha visto quintuplicare il numero delle presenze.
Se all’azzeramento dei flussi in ingresso aggiungiamo la possibile diaspora della componente straniera,che con tanta fatica si era integrata nel Belpaese, è evidente ci saranno conseguenze anche sul piano demografico nazionale.
Non dobbiamo infatti dimenticare che la nostra popolazione di 60 milioni di persone – 55 milioni di italiani e 5 milioni di stranieri- ha un tasso di natalità decisamente basso : 1,42 figli per donna (nonostante il 2,07 delle donne straniere). Questo vuol dire che siamo sempre di meno. Un dato necessariamente preoccupante? Probabilmente no in primo luogo perché siamo un Paese certamente sovrappopolato rispetto alle sue risorse naturali, in seconda battuta perché la nostra economia, basata sulla trasformazione di materie prime che non abbiamo e su una forte dipendenza energetica, non è più capace di creare ricchezza: non possiamo più competere con i paesi emergenti e siamo assenti nei settori produttivi più innovativi.
Se la ricchezza di una nazione si basa soprattutto sulle risorse umane è pur vero che il loro valore non dipende dal numero ma dalla qualità dell’ istruzione. Certo senza quei 400 mila stranieri entrati ogni anno, nell’ultimo decennio, saremmo già scesi a 55 milioni ma, visto il fallimento- non casuale- di ogni politica d’integrazione, è indiscutibile che gli squilibri e le disuguaglianze siano aumentati e continueranno ad accentuarsi producendo la ribellione delle seconde generazioni di immigrati, così come sta avvenendo puntualmente in tutta l’Unione Europea.
Dunque in queste condizioni l’aumento demografico è stato e resta possibile da una politica di sfruttamento dei lavoratori immigrati con il solo effetto di rallentare l’impoverimento del Paese.
Per questo non dobbiamo vedere il calo demografico come un fattore negativo : esso infatti coincide con un calo dei consumi – e quindi con la perdita di posti di lavoro- solo se la produttività resta invariata. Ma se questa aumenta – non per un maggiore sfruttamento dei lavoratori- ma per l’innovazione tecnologica o l’apertura di nuovi settori produttivi- la domanda complessiva non scende e si hanno un miglioramento della qualità della vita ed una maggiore giustizia sociale.
Comunque, secondo molti indicatori, in questi tempi di crisi è il gap demografico tra italiani e immigrati che continuerà a produrre la necessità di nuovi ingressi dall’estero: lavoratori indispensabili ma non determinanti per la rinascita dell’economia italiana. Altro discorso varrà quando partirà la ripresa e se coinciderà con un migliore riposizionamento della nostra economia italiana a livello globale.
Ripeto: per molti anni l’immigrazione è cresciuta malgrado la stagnazione; questa immigrazione “ low cost” è andata gradualmente a riempire le sacche occupazionali lasciate libere dagli italiani dilatando, in una logica di sfruttamento, i tempi del declino. Oggi abbiamo toccato il fondo, per questo assistiamo ad un’inversione di rotta, con l’azzeramento degli ingressi etnici e la fuga di lavoratori italiani e stranieri. Una tendenza che non dovrebbe continuare per molto ma che comunque ,a lungo e medio termine, non può che giovarsi di un alleggerimento della pressione demografica. Fenomeno questo che comunque si verifica sempre in casi di gravi crisi, spesso quando ormai contesti socioeconomici sono ormai irrimediabilmente compromessi.
Quello che è certo è che, fermo restando il tasso di natalità degli italiani, aumentando la popolazione immigrata, senza alcuna politica di integrazione e pianificazione famigliare, fondata sul rispetto dei diritti dei minori e su una genitorialità responsabile, l’area del disagio è destinata ad allargarsi aggravando ulteriormente il malessere sociale.
Al di là delle inevitabili divergenze di opinione, certamente la gravità della situazione impone una profonda riflessione su quanto è accaduto e sta accadendo nel mercato del lavoro e sulle politiche dell’immigrazione finora attuate nel nostro Paese. Senza un’ adeguata politica di integrazione, fondata sul pieno rispetto dei diritti umani degli immigrati, la problematicità demografica del Paese risulterà uno degli elementi determinanti per il nostro declino.
E soprattutto, ormai il segmento etnico è pari al 10,2% del mondo del lavoro e produce l’11% del PIL ma la sua capacità di consumo è certamente inferiore a quella produttiva. Possiamo ancora permetterci questa ingiustizia?
Pigr’Alberto
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